Produzione letteraria

 

di Mario Serio

“Produzione letteraria

 

La  produzione letteraria di Barrios comprende alcune poesie e alcune lettere. Esse sono una testimonianza preziosa per cogliere la portata e l’intensità del suo mondo poetico e per conoscere più da vicino la sua personalità e alcuni dati biografici.

Profesion de Fe” e “Bohemio” ci parlano, tramite un linguaggio ricco di suggestione, dell’iniziazione quasi messianica e della missione itinerante dell’artista. Emerge un rapporto con l’arte e specificamente con la chitarra che discende direttamente dalla divinità e che si manifesta attraverso una profusione panica dei segreti dello strumento. Questa “scatola misteriosa” libera, in seguito alla sofferta purificazione dell’uomo-sacerdote, i suoi segreti: la sintesi sonora di tutte le voci della natura vergine d’America.

 

 

 

Profesion de Fe

 

(di Agustín Barrios)

 

Tupa, el espiritu supremo y protector de mi tribu,

encontróme un día en el medio del bosque verdegueante,

 extasiado en la contemplación de la Naturaleza.

 Y dijo: “Toma esta caja misteriosa y desvela sus secretos”.

 Y encerrando en ella a todas las avecillas canoras de la floresta

 y las quejas dolientes del alma resignada de los vegetales,

 la abbandonó en  mis manos.

Toméla, obedeciendo al mandato de Tupa,

 y poniendola muy cerca de mi corazón acongojado,

 pase varias lunas a la vera de una fuente.

Y una noche Yacy (la Luna, nuestra madre),

 reflejada en el liquido cristal, sintiendo la tristezza de mi alma india,

dióme seis rayos de plata, para descifrar con ellos sus secretos.

 Y el milagro se operó:

del fondo de la caja brotó la sinfonía meravillosa

 de todas las voces de la Naturaleza virgen de América.

 

 

Professione di Fede

 

(Traduzione di Mario Serio)

 

Tupa, lo spirito supremo e protettore della mia tribù,

mi incontrò un giorno nel mezzo del bosco verdeggiante,

estasiato nelle contemplazione della Natura.

 E disse: “Prendi questa cassa misteriosa e desta i suoi segreti”.

 E rinchiudendo in essa tutti gli uccelli canori della foresta

e i sospiri dolenti dell’anima rassegnata dei vegetali,

la abbandonò nelle mie mani.

 La presi, obbedendo al mandato di Tupa,

e ponendola molto vicino al mio cuore afflitto,

 passai varie lune accanto ad una fonte.

 E una notte Yacy (la Luna, nostra madre),

riflessa nel liquido cristallo, sentendo la tristezza della mia anima india,

mi diede sei raggi d’argento, per decifrare con essi i suoi segreti.

E il miracolo accadde:

dal fondo della cassa sgorgò la sinfonia meravigliosa

di tutte le voci della Natura vergine d’America.

 

Più che di poesia si tratta di prosa poetica ricca di immagini, di una parabola carica di misticismo crepuscolare. Barrios costruisce  o  scopre il mito della chitarra a partire dalle divinità guaraní,  rivela la armoniosa compresenza delle forze e delle manifestazioni di Madre Natura, come espressione di un fervido panteismo. Ma cerchiamo di approfondire alcuni temi presenti in questi versi: la divinità, la foresta, la luna

 

Tupá è il maggiore degli dei guaraní, o meglio, il dio unico, dato che gli altri geni sono mere forze creatrici che contribuiscono con la loro azione al processo costruttivo del mondo, ma non sono di essenza divina. Tupá è uno spirito puro, senza forma, percepibile solo attraverso i suoi attributi, che anima e impregna l’intero universo. Brilla nel lampo, ruggisce nel tuono, si liquefa nella pioggia, arde nella luce solare, mormora nelle fronde silvestri. Tutte le sue manifestazioni nell’universo esprimono la bontà creatrice, non per disegno volontario della mente divina, ma perché è nella natura intima di Tupá realizzare il bene, per quello stesso processo fatale che porta la frutta a maturare. Tupá non può pensare il male né tanto meno può realizzarlo, dal momento che non lo concepisce. Essendo Tupá il puro bene, può realizzare solo il bene, sia verso il cattivo che a favore del buono. Tupá non castiga, né si offende, né umilia, né si occupa di niente. Fa scorrere costantemente il bene sopra l’universo tormentato.

 

L’habitat dei guaraní è boscoso. La selva, con preponderanza su qualsiasi altro fattore, caratterizza la Cultura guaraní. Fornisce gli elementi materiali di base e poco a poco il suo influsso giunge a ripercussioni più profonde. Si proietta nel dominio dell’emozione religiosa. La parola che in guaraní designa l’anima trae la sua origine dal canto malinconico e lacerante di un uccello, abitante alato della selva, che nelle sere azzurre del Paraguay sgrana note pungenti che fanno pensare a cose di un altro mondo. E l’Eden guaraní va indissolubilmente associato all’idea dei boschi nativi, ricchi di frutti. Yvaga, Paradiso, letteralmente vuol dire “luogo ricco di alberi da frutto”. La selva del Paraguay orientale è nutrita, spessa, esuberante, e si decora  come una donna con la grazia di un’orchidea o con i pomposi fiori dai molteplici e vibranti colori,  di alberi alti come cattedrali. La vegetazione si ammucchia; una pianta difende l’altra dalle furie delle tormente, e l’ombra delle piante più antiche ripara dall’ira del sole i teneri germogli  che lanciano le loro fronde  come frecce  verso l’alto. Acustiche acque intonano ballate secolari e una infinita varietà di uccelli sfoggia le sue piume multicolori  e scarica nella brezza le note dei suoi gorgheggi. Tutti i rumori della selva si risolvono in una armonia e la moltitudine infinita degli alberi in un organismo unico.  

 

La luna, madre della razza (yacy) è considerata genitrice delle stelle e per questo è più grande di esse. Nella poetica dizione dell’indio, gli astri del cielo sono “fuochi della luna” (yacy tatá), scintille disinteressate di questo falò maggiore che percorre come una pallida torcia i sentieri del cielo notturno, e Venere, quella dagli occhi chiamanti (tesá yayá), è nominata yacy tatá guazú, che tradotto letteralmente significa “fuoco grande della luna”.

 

 

A proposito del verso “sentendo la tristezza della mia anima india” è interessante ciò che scrive Umberto Galimberti in  La terra senza il male:

 

“Tra le popolazioni ameroinde, i Guaraní erano quelli che più degli altri la sapevano lunga a proposito dell’infelicità, e questo assai prima che arrivassero gli occidentali che, al riguardo, non insegnarono loro nulla. “Le cose nella loro totalità sono una; e per noi che non abbiamo desiderato questo, sono cattive”. Così andava ripetendo lo sciamano dissipando l’enigma dell’infelicità. Ad ascoltarlo erano gli Ultimi Uomini, come i Guaranì con orgogliosa e amara certezza amavano chiamarsi. Essi vagabondavano, infelici, nel folto di una foresta paraguayana, alla ricerca della Terra senza il Male.

Nel 1912 l’etnologo Curt Nimuendaju li incontrò lungo le spiagge brasiliane mentre:

Danzavano instancabilmente per diversi giorni nella speranza che i loro corpi sarebbero diventati leggeri grazie al continuo movimento e avrebbero potuto volare verso la terra che attende i suoi figli all’est. Delusi, ma conservando intatta la loro fede, essi tornarono via convinti che, vestiti con abbigliamento occidentale e nutriti di cibo occidentale, si erano troppo appesantiti per riuscire nel loro tentativo.

... come precisa Métraux, “nel decennio che va dal 1539 al 1549 furono proprio i Guaraní a informare gli spagnoli dell’esistenza di quella terra, promuovendo in loro la decisione della sfortunata spedizione di Pedro de Ursua, che si mosse alla conquista dell’Eldorado”. Fraintendimento occidentale di un messaggio estraneo a una mentalità per la quale la terra è solo la terra di conquista e non, come ripetevano i Guaraní, “terra esausta che sospira: ‘sono stipata dei cadaveri che ho divorato. Lasciatemi riposare. Padre, anche le acque implorano riposo, anche gli alberi, gli animali’”.

“Raramente”, osserva Mircea Eliade ”si trova nella letteratura etnografica una così commovente espressione di stanchezza cosmica e un simile desiderio di riposo finale”. Un riposo che non è la proiezione sulla terra della stanchezza degli uomini, perché i Guaraní, proprio perché sanno che la terra da loro abitata “è troppo stanca e aspira al riposo”, migrano verso un’altra terra che non è il cielo. Lo ricorda a più riprese Eliade:

“La terra senza il male, non appartiene all’al di là, di essa non si può dire che sia invisibile, solo che è ben nascosta; non la si raggiunge solo in spirito, ma in carne e ossa […]. E’ il contrario di questo mondo perché è purezza, libertà, beatitudine, immortalità, ma appartiene a questo mondo, perché ha una realtà e una identità geografica”.

 

Pervenuti sulla spiaggia, ai confini della terra malvagia, la delusione dei Guaraní era grande. Laggiù a Oriente, o come loro dicevano “dalla parte del nostro volto”, non c’era la Terra senza il Male, ma la terra dove “il mare se ne era andato col sole”. Infaticabili tornavano nella loro foresta ripetendo a se stessi:

 

Noi che sappiamo ingannevole il nostro linguaggio, che non abbiamo mai risparmiato sforzi per raggiungere la patria del vero linguaggio, la dimora degli dei, la Terra senza il Male, dove nulla di ciò che esiste può essere detto secondo l’Uno.

 

Il linguaggio di cui i Guaraní vanno alla ricerca è un linguaggio che non separa l’umano dal divino. Non è il linguaggio dell’Uno (occidentale) che, nominando le cose secondo la loro unità, le limita e irride alla loro vera e segreta potenza, che può silenziosamente enunciare che questo è anche quello, che i Guaraní sono uomini e nello stesso tempo dèi. Tra l’escludenza dell’Uno e la proliferazione indifferenziata del molteplice, la via indicata dai Guaraní è la via del duplice, “dell’uno e dell’altro insieme” come sono soliti ripetere, in quell’ambi-valenza dove l’uno e l’altro si richiamano e si compongono (sym-bàllein) in espressione simbolica[1]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bohemio

 

(di Agustín Barrios)

 

Cuan raudo es mi girar! Yo soy veleta,

que moviéndose a impulsos del destino,

va danzando en loco torbellino

hacia los cuatro vientos del planeta.

 

Llevo en el plasma de una vida inquieta,

y en mi vagar incierto, peregrino,

el Arte va alumbrando mi camino

cual si fuera un fantástico cometa!

 

Yo soy hermano en glorias y dolores

De aquellos medioevales trovadores

Que sufrieron romántica locura.

 

Como ellos también, cuando haya muerto,

Diós solo sabe en qué lejano puerto,

Iré a encontrar mi tosca sepultura!

 

 

Bohemio

 

(Traduzione di Mario Serio)

 

Com’è veloce il mio cammino! Io sono una piccola vela,

che muovendosi sotto gli impulsi del destino,

va danzando in un pazzo turbine

verso i quattro venti del pianeta.

 

Porto in me il plasma di una vita inquieta,

e nel mio vagare incerto, peregrino,

l’Arte illumina il mio cammino

come una fantastica cometa!

 

Io sono fratello in glorie e dolori

Di quei medievali trovatori

Che soffrirono di romantica pazzia.

 

Anch’io come loro, quando sarò morto,

Dio solo sa in qual lontano porto,

Andrò a incontrare la mia tosca sepoltura.

 

 

 

 

La partida del indio

 

A Caracas, la ciudad propizia

Guaicaipuro, mi hermano, es la hora triste

De proseguir el áspero camino…

Pero antes, con unción la frente inclino

Grato al pan y la sal que me diste.

Pedíte abrigo y el portal me abriste

Del solar do, por mágico destino,

Tu noble cuerpo de titán cetrino

Tan sólo de immortal gloria se viste.

Y pues voy a dejar tu blando lecho,

Que suelte un grito el oprimido pecho

Del indio que tal vez ya nunca vuelva.

 

Guaicaipuro fraterno, indio sublime,

En tu corazón palpita y gime

El corazón immenso de la selva!

 

 (Agustín Barrios Mangoré, Caracas, 2 maggio 1932)

 

 

 

Mi guitarra

 

(di Agustín Barrios)

 

Hay un hondo misterio en tu sonoro

Jardiniere corazón, guitarra mía.

Gozas penando, y hay en tu alegría

Transportes de pasión, gotas de lloro.

 

Te dío su corazón el dulce moro

El íbero te dió su alma bravía

Y la America Virgen, se diría,

Puso en , de su amor, todo el tesoro.

 

Por eso en tu cordaje soberano

Que vibra con acento casi humano

Es a veces, tu voz, como un lamento

 

Como queja de tu alma solitaria

En cuya triste y mística plegaria

Florece sin cesare l sentimento.

 

 

 

 

 

 

In Patria del 25 settembre 1922 fu pubblicato questo sonetto senza titolo di Barrios:

 

Hay un país en el Nuevo Continente,

donde tiene la raza femenina

destellos de una luz casi divina

en susu ojos de brillo sorprendente.

 

Cada varón pelea bravamente,

cada mujer parece eroina,

y cualquiera matrona que declina

lleva escrito el valor sobre la frente.

 

Hay una dama de salientes dones,

Que por temor a la invasora garra,

dió a sus hijos fuerza de leones;

 

Y encuentra entre tan bravos ejemplares

Al Mago Encantador de la Guitarra,

Que hace honor a su patria y a sus lares.

 

 

Un’altra poesia senza titolo di Barrios:

 

Toda ilusión el corazón embriaga

Mientras su dulce realidad nos niega:

Es realidad después, y ya no halaga;

El deseo es una ola: se despliega,

Resbala, se hincha, se abalanza, llega

Reventando en espumas…y se apaga!

 

 

El Arte Musical

 

a Susana Elizeche Benítez

 

Es el arte musical

Un sagrado manantial,

                              Susanita,

oculto entre verdes palmas

que brinda un agua a los almas

                              tan fresquita,

tan clara, tan cristalina,

cual la mente no imagina

                              otra igual.

Oasis que el cielo quiso

Fuere nuestro paraíso

                               terrenal.

Oasis riconfortante

Donde descansa un istante

                            la perdida

Caravana, en su incierto

viaje, por el desierto

                             de la vida.

Ah! Cúantos siente el ansia

De morar en esa estancia

                              de verdor,

en su anhelo de solaz

en su eterna sed de paz

                            y de amor.

Mas, no a todos les fué dado

ser guardienes del sagrado

                             manantial.

A ese alto misterio

Donde se oficia el misterio

                               musical,

sólo van aquellos seres

que con mágicos poderes

                             de excepción,

dominan el circuíto

donde vibra un infinito

                               de emoción.

Y , bella Susanita

Señora de bendita

                           chispa ardente,

a tu empeño, ya sumisa

serás gran sacerdotisa

                              de esa fuente.

Y sus ninfas, a porfía,

te darán la melodía

                               de su voz,

voz divina, a cuyos sones,

se elevan los corazones

                              hasta Dios.

 

 

Agustín Barrios (Cacique Mangoré).

 

 

Testo di una lettera inviata da Barrios al suo grande amico e protettore uruguayano Martín Borda y Pagola:

 

 

Montevideo, junio 22 de 1921

 

            Inolvidable hermano Pagolita:

 

Acabo de llegar a esta capital, de regresso de Rivera y Santana de Libramento, las últimas dos plazas que me restaban por visitar durante esta temporada, antes de emprender mi proyectado viaje hacia mi tierra nativa. Martín y yo hemos hecho todo lo que a nuestro alcanne estivo en pro de un resultado positivo; yo prodigando sin tasa un arte preñado de sinceridad; Martín poniendo de su parte una indiscutibile buena voluntad y una actividad decidila en lo que se remiere a sus funciones de secretario-representante, todo come lo sabes, hermano, dentro del radio de acción severo de una honradez y altivez sempre necesarios para quienes han de abrirme camino por entre el tupido zorzal de la existencia. Cinco conciertos hemos efectuado en las mencionadas plazas: dos en Rivero, uno en el Frigorífico Armour, uno en el teatro Brasil-Uruguay de Santísima y uno en el Club Caxibal de la misma ciudad brasileña. Los tres primeros conciertos fueron un brillante fracaso: los de Rivera, por encontrarse esta poblaciónen un deplorable estrado de anemia artístico-financiero, y el del Frigorífico, por la miserabile mala fe del Gerente de la misma institución, quien, autorizzando la realizaciónd de mi recital en sus salones, nos salió al cabo de cinco días con el cuento de amor de que el Frigorífico Armour no daba un centésimo. ¿Puede figurarte mayor desvergüenza? Los recitales del “Brasil-Uruguay” y “Club Caxivalfueron los que salvaron la petiza, para los efectos de gastos de permanencia y locomoción. Pero entre toda esta istoria, tuvimos que emplear 12 días, y ya podrás calcular, hermano, lo que pudo ser  el resultado líquido. Como sé que siempre te ha interesado saber de esta mi zarandeada vida de artista, pongo en tu conocimiento estos detalles, ya que al fin de la fornada se me presenta a revolver este serio problema: trasladarme con Martín a Buenos Aires, preparar esa plaza, dar tres o cuatro conciertos y seguir inmediata y directamente a San Juan, donde está nuestro gran Joaquín, dar igualmente allí tres conciertos, tocar de paso Córdoba, para después llegar con buen viento a Asunción. ¡Qué problema, Pagolita querido! Las elucubraciones matemáticas de Copérnico, de Newton o de Martín Gil, resultan un poroto ante esta ecuación formidabile…Tres días hace que me estoy devanando los sesos por ver si consigo hallar una salida en este inesperado dédalo. Tras laboriosa y madura reflexión, veo al fin que no me resta otro recurso que recurrir una vez más a ti, mi sempre generoso hermano. Necessito que me des un nuevo empujón. Tu alma grande y tu inmenso corazón conocen de sobra cuánta honrada sinceridad hay en este pedino, y considero que habiéndome , ayudado a alejarme del borde del sepulcro, no sería extraño que me ayudases ahora a alejarme de estos pagos, ya que tan perniciosos son los artistas como la langosta, mi caro hermano. Me ayudarás con lo que puedas, no te pido suma determinada. Tampoco he de venirte ahora con la clásica promesa de devolverte en seguida lo que tu noble generosidad me facilite. Pero como en Buenos Aires tengo, además de lo que me puedan dar mis conciertos, la perpectiva de obtener Buenos reales con la impresión de discos en la Casa Max Gluxman, me asiste la esperanza muy honrada, de estar en condiciones de devolverte el préstamo con la mayor brevedad posible. Me asiste también, hermano, la fundada esperanza, de que tan pronto como pueda llegar a San Juan, Joaquín me ha de muñequear decididamente en la realización de mis recitales en ésa. Te agradeceré inmensamente, querido Pagolita, me escribas in continenti, sea cual fuere la órbita de tus actuales posibilidades.

 

            Don Luis Durañona me acaba de leer la carta que últimamente le dirigiste. Le pedí permiso para contestártela en su nombre ya que soy yo que ha motivado tu misiva. Asintió a ello y me recomendó specialmente te transmitiera sus saludos afectuosos y los de toda su famiglia.

 

            Las copias de mis composiciones no están aún terminadas, debido a que no he podido disponer de sufficiente reposo en estos últimos tiempos. Pero puedes estar tranquillo, hermano. Me voy a poner a trabajar sin descanso en estos dias para dar cumplimiento a tu deseos, que son los míos. Lo que termine se hará envío inmediadto de las músicas. No será esta mi última carta para ti. Antes de dejar este querido Uruguay, y con el envío de mis composiciones, te escribiré nuevamente despidiéndome, ya que creo no me será posible darme el gustazo de verte y abrazarte.

 

            Entretanto, querido hermano, y con los más afectuosos recuerdos para todos los tuyos, recibe el fraternal abrazo de este tu hermano que te dedica constante gratitud y el más hondo e invariabile afecto. 

 

   

  

 

 



[1] U. Galimberti, La terra senza il male, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 25-27; 30